Appunti di viaggio – 1

Non so spiegarmi, se non come effetto di una paura, paura del rischio, della fatica, del sacrificio, questa declamazione della vita come tranquillità immobile, salva da spaesamenti. Oggi come ieri, ma forse ancor più di ieri, siamo chiamati allo spaesamento, e dunque fuori dalla prigione di un’unica immagine, di un unico paese. Ma non è forse questo l’“incipit”, il passo originario fondativo della fede? Primo passo di colui che ci è padre nella fede, Abramo? “Esci!”. «Esci dalla tua terra e va’». Uscita di viaggio. Verso lo sconosciuto.

Angelo Casati [1]

Il viaggio, avventurarsi senza paure su sconosciute strade, è connaturale all’uomo, radicato nel suo DNA al punto di fondersi con la memoria religiosa delle origini. C’è sicura propensione al viaggio in chi si fa inventore di strade ed è raro che al viaggiatore venga negato il premio della scoperta.

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Questi appunti di viaggio, un viaggio appena compiuto sul finire dell’estate, si limitano ad alcuni luoghi tra i tanti toccati, luoghi capaci di suscitare emozioni forti, ciascuno dei quali da solo ricompensa la fatica di migliaia di chilometri percorsi immersi in paesaggi sorprendentemente affascinanti.

Vilnius, la capitale della Lituania, vale da sola il viaggio. E nel cuore della città la Porta dell’Alba – Aušros Vartai – l’unica rimasta intatta dell’antica cinta difensiva, con la miracolosa icona della Santa Madre di Dio, la “Stella del Mattino”, il bruno volto dolce e melanconico e le fini mani incrociate, le sole parti lasciate scoperte dalla preziosa riza d’argento che ricopre il dipinto del XVII secolo. L’icona sovrasta l’altare d’una cappella edificata sopra il voltone della porta e attraverso un’ampia finestra è ben visibile dalla strada sottostante. Così che alle innumerevoli persone che – molte in ginocchio – salgono la ripida scala che porta alla cappella, si aggiungono nell’arco della giornata centinaia di passanti che si fermano, a volte a lungo, per dare il saluto a Maria. E sono d’ogni confessione – cattolici, ortodossi e uniati – poiché cade davanti a Lei ogni distinzione.

Cosa colpisce il visitatore “straniero”? Il silenzio, la devozione profonda, i volti concentrati nella preghiera, spesso rigati di lacrime, specie negli anziani. Volti e lacrime che raccontano tutte le sofferenze d’un popolo che fin nella sua storia più recente ha conosciuto invasioni e violenze, senza mai flettere nella propria dignità e senza mai cessare di confidare nell’aiuto della Santa Madre di Dio. La cui icona – val la pena notarlo – tra eccidi, distruzioni e saccheggi nessun barbaro invasore ha mai osato toccare.

Šiauliai, una decina di chilometri a nord-ovest, sulla strada che porta al confine con la Lettonia, la celeberrima Collina delle CrociKrižių Kalnas – simbolo attraverso i secoli dell’identità nazionale e religiosa del popolo lituano. Ci si arriva con un rettifilo pedonale di qualche centinaio di metri che ne scopre poco a poco la vista: sotto un cielo di azzurro cristallo che fa da solo spettacolo cominci a intravedere le croci, e sono sempre di più, a ricoprire il pur modesto rilievo di terra e a largo raggio tutto l’intorno, e quando arrivi ai piedi della “collina” ti accorgi che sono migliaia – 50.000 dicono – di ogni foggia, materiale e dimensione, fittissime, incastrate, sovrapposte, una selva dal lieve stormire metallico al primo levar di vento.

I lituani presero a piantarle dopo il 1830, segno di silenziosa tenace resistenza all’oppressione zarista. Il numero delle croci crebbe di continuo e le messe celebrate ai piedi della collinetta significavano sempre più lo spirito libertario nazionalista, anche dopo l’avvento nel 1940 dei nuovi padroni dall’URSS. I sovietici, allergici a rivendicazioni nazionaliste e religiose di qualsiasi tipo, provvidero più volte a spianare tutto coi bulldozer bruciando le croci di legno e fondendo quelle di ferro, ma ogni volta croci e collina ostinatamente risorgevano. Dal 1991 la Lituania è di nuovo indipendente e la Collina è divenuta struggente simbolo di libertà dove gente d’ogni paese e confessione religiosa viene a piantare la sua croce alla quale affida, grande o piccola che sia, il segreto dei voti che si porta in cuore.

Riga, capitale della Lettonia, è una città moderna, effervescente di traffici e di stimoli culturali, che cerca di aumentare alle spalle la distanza ideale dagli anni del regime sovietico. Il suo cuore resta pur sempre nella Vecriga, la Città Vecchia, un piccolo pittoresco concentrato rettangolare di chiese, case e palazzi delimitato sui lati lunghi dal grande fiume Daugava e da un romantico canale. Ma quello che sembra segnare il vero confine tra città vecchia e nuova, simboleggiando il passaggio tra il passato e il futuro che ti attende, è il Monumento alla LibertàBrīvības piemineklis – che svetta coi suoi 42 metri al centro della larga strada che dalla Vecriga porta appunto nel nuovo. Costruzione recente – risale al 1935 – e francamente brutta ma il cui significato va ben oltre l’occasione – la guerra per l’indipendenza nazionale del 1918-20 – per assurgere a simbolo di rifiuto d’ogni asservimento, specie dopo la riacquistata libertà nel 1991 della piccola repubblica baltica.

E quando percorrendo le stradine e le piazzette della Vecriga ti imbatti di frequente in anziane donne segnate in viso ma decorosamente vestite, a tendere la mano per un’elemosina, ti rendi conto come più d’una generazione sia stata derubata della vita e – specie quando subito dopo incroci gruppetti di giovani per contrasto chiassosi di speranza – ti auguri con tutto il cuore che questo non abbia ad accadere mai più almeno nella vecchia Europa, per troppi secoli vittima della mortifera libido del potere.

Beniaminów, un paesino di duecento anime a darcela tutta, sperduto nella cintura nord-ovest di Varsavia, dove ti avventuri solo perché sai che esiste e sai che racchiude qualcosa di importante. Appena oltre l’abitato, dove comincia una grande cupa foresta, nascosti da una fitta vegetazione interrotta da radure sabbiose, si trovano i resti di Fort Beniaminów, una rete senza fine di cunicoli sotterranei in cemento armato, areati dall’alto con lunghi camini che spuntano ordinati in teutoniche file sul terreno sovrastante. Il complesso ha forma di pentagono irregolare, con il lato più lungo che misura 400 metri – in buona parte opprimente frontone d’ingresso in calcestruzzo – e una superficie complessiva di un centinaio di ettari. Impressionanti le dimensioni, impressionanti lo stato di abbandono e le lugubri risonanze di guerra. Ma ancor più t’impressiona il fatto che lì sono stati forzati al lavoro di costruzione decine di migliaia di prigionieri ridotti in schiavitù. Stiamo parlando del 1800, quando la Polonia era sotto il regime zarista. Ma stiamo parlando anche del secolo scorso, quando nel ‘17 vennero lì internati i patrioti polacchi resistenti alla Germania imperiale e quando nell’ultimo conflitto mondiale, tra il 1941 e il ‘44 i nazisti vi rinchiusero prigionieri d’ogni nazionalità.

È lì forse, in superfice, o comunque in immediate vicinanze di cui è stata cancellata ogni traccia, che esisteva anche il lager denominato “Stammlag 333” dove dopo l’8 settembre 1943 confluirono in gran numero gli internati militari italiani che vi restarono fino al marzo ‘44, quando sotto la pressione sovietica da est i nazisti furono costretti a trasferire i loro detenuti in Germania. Del lager di Beniaminów si sa che prima degli italiani era riservato ai russi, al più infimo grado della scala concentrazionaria, che a decine di migliaia vi trovarono la morte per i maltrattamenti, la fame  e il tifo petecchiale.

(vm)

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A questi appunti di viaggio assegniamo il numero 1, e se altri han da raccontare di loro mete, “uscite di viaggio, verso lo sconosciuto”, saremo ben lieti di proseguire nell’elenco: basta inviare il proprio contributo via mail a <info@inventoridistrade.com>.


[1] A. Casati, Le paure che ci abitano, Romena 2011, 26.