
Presentiamo la sintesi dell’intervento che ha visto come protagonista sabato 8 maggio Emerico Labarile sulla strada “Corpo che sono e corpo che ho”, con il titolo “Il linguaggio del corpo come elaboratore di sensazioni ed emozioni”, prima delle tre parti che andranno a costituire il complessivo contributo del Relatore a Inventori di strade (i due successivi appuntamenti alla ripresa autunnale).
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L’essenza totale dell’uomo è racchiusa nel contesto “uomo”: mente e corpo. “Io sono il corpo”.
Nelle parole di Gn 2,25 vediamo che l’anima – alito divino – dà alla materia del corpo l’essenza di ciò che poi noi siamo come bisogni fisiologici, come risposta sensoriale, emozionale, affettiva, come espressione di un’etica, di una morale, d’una spiritualità.
Il corpo – corpo-mente, nostra carta di identità – è un elaboratore di informazioni e attraverso i suoi “sensori” visivi, uditivi, tattili, gustativi, olfattivi, il mondo entra in noi. Il nostro cervello è un sistema dinamico che mette in moto un meccanismo di valutazione di queste informazioni, fornendo al corpo la possibilità di reagire con le sue caratteristiche fisiologiche, così che si determina una sensazione. Poi questa sensazione sale verso la parte superiore del cervello e assume particolari colori per diventare emozione, fino a che tutto questo si fa consapevole in termini di valore e di significato per poi sviluppare l’espressione del comportamento, cioè l’azione.
Il nostro cervello è diviso in due emisferi che interagiscono per la realizzazione di un progetto unico. Il destro è la parte “in ombra”, il sinistro è la parte “in luce”: parte inconscia, emotiva-affettiva, e parte razionale. Nella parte destra ho percezioni indistinte, mentre girando verso la parte sinistra comincio a distinguere i singoli elementi che dall’oscurità affiorano alla luce.
Il rapporto tra il bimbo e la madre durante la gravidanza: man mano la madre prende contatto e confidenza con il futuro neonato. Questa relazione prima della nascita è presupposto di quella che comincerà dopo, quindi è molto importante, importantissima, mentre oggi la relazione madre-bambino è molto confusa per una insufficiente capacità di ascolto, per una involontaria distrazione sul piano della comunicazione. Nella misura in cui il neonato stabilisce una relazione con chi si prende cura di lui e quindi un rapporto materiale dal punto di vista del supporto biologico, comincia ad avere vita autonoma ma avverte anche di dipendere da un altro, e ciò costituisce la prima angoscia esistenziale dell’uomo. Con la madre il bambino comincia a stabilire quello che è “rapporto di amorosi sensi”: sensorialità, meccanismo gestuale, risposta mimica, emozionale comportamentale, espressiva, in aspettative reciproche. Dopo i primi sei mesi il bimbo comincia a rendersi conto che la madre può dargli delle difficoltà sul piano relazionale e a vivere allora un senso di frustrazione, per cui mentre prima si isolava organizzando “automaticamente” i propri livelli difensivi, ora assume una “chiusura” nei confronti di questa realtà.
Il rapporto della madre con il bambino è gestuale, il primo “linguaggio” è gestuale. Pian piano questo si lega a quella che sarà la parola, che va a valorizzare il gesto, dandogli senso e significato, per cui il gesto e la parola diventano un tutt’uno. Mentre nel rapporto verbale noi possiamo camuffare, modificare e filtrare concetti, il gesto sfugge alle regole del controllo, poiché è un fatto istintivo che contempla risposte sensoriali, emozionali, profonde, acquisite e quindi non soggette a censura. Nella misura in cui parliamo siamo attenti a pensare quello che stiamo per dire e per fare. Nel gesto lo facciamo, magari un gesto inconsulto, però è fatto.
Alla base del linguaggio non verbale e poi verbale ci sono quei neuroni “specchio” del nostro sistema nervoso che hanno la capacità di recepire, di fotografare tutto ciò che noi vediamo, osserviamo, sentiamo, collocandoli nella struttura mnemonica in cui hanno sede. Quando viviamo all’esterno quella realtà da noi recepita, la riconosciamo. Se io faccio l’elemosina a un medicante, è come se la facessi a me stesso, perché ho già recepito il senso dei valori che mi ispirano ad agire e io “mi specchio” nell’altro, in tutti i sensi: gestuale, emozionale, espressivo, comportamentale. I neuroni “specchio” sono alla base della capacità di valorizzare l’incontro con l’altro, dandogli un senso di “familiarità”. Questa capacità si ha solo se c’è un corpo che determina dentro di sé una risposta fisiologica allo stimolo, la realizza all’interno sotto forma di sensazione, la colora di una particolare emozione, ne prende coscienza dandole valore: nel riconoscimento le basi per avvertire e conoscere quanto sta succedendo nel rapporto relazionale.
Alcuni esempi tratti dall’antica letteratura greca. L’incontro nell’Ade di Odisseo con la madre (XI libro dell’Odissea), esempio di rapporto, di incontro senza il corpo, che porta a un senso di delusione. Le sensazioni ed emozioni che possiamo cogliere nell’incontro ci danno questo senso di disillusione e di illusione nello stesso tempo, così che dentro di noi si crea uno stato emozionale che ognuno di noi vive in maniera specifica, poiché ognuno di noi è un’entità esclusiva irripetibile, ognuno con un proprio software, cioè con un programma cerebrale, con una capacità di elaborare i dati, che gli consente di affacciarsi alla realtà dell’altro e contemplarlo in autonomia e indipendenza.
Il concetto di familiarità consiste nel fatto che nella relazione di tipo sensoriale, emozionale, di conoscenza c’è un feeling, un qualcosa in più che lega, che rende l’altro familiare, come se ci fosse qualcosa di mio che l’altro può condividere con me. Nell’Elettra di Sofocle, Oreste va a ritrovare la sorella che non rivedeva da anni e la riconosce subito mentre lei fatica ma a un certo punto attraverso i discorsi, spunti di vita comuni riesce a vedere in questo altro il fratello: la relazione qui è incontro attraverso una sofferenza condivisa.
Nell’Oreste di Euripide, il matricida arriva ad Argo dove a un certo punto lo attende un verdetto di morte. Oreste cade in uno stato di smarrimento, di ansia, di paura, un’angoscia esistenziale, particolare. Passata questa fase ritorna in sé ed è “come puledro cui viene tolto il giogo”: troviamo il corpo, le sensazioni, le emozioni, gli stati d’animo, il senso del valore e quindi di un’etica ma anche di una religione.
Infine Guerra e pace di Tolstoj, quando Pierre finita la guerra torna a casa e riconosce la sua Natascia attraverso episodi, momenti in cui la ragazza dice qualcosa. Pierre comincia ad avvertire come una vertigine interiore, un ripristino di una valutazione nella memoria di qualcosa che emerge, come se ci fosse una trasfigurazione, una riedizione del volto di Natascia: questa è familiarità.
La gioia: la esprimo in maniera diversa. La risposta interiore alla stessa gioia come elemento di significato assume forme comportamentali diverse, con diverso investimento affettivo, il rapporto relazionale affettivo è diversificato in rapporto all’oggetto di investimento: la qualità di un sentire, la diversità con cui colgo il senso del valore da cui io posso decidere il mio comportamento.
Nella relazione è fondamentale il rapporto in cui ognuno possa avere la possibilità di sentire, ascoltare dentro di sé la risonanza di stimoli, sensazioni, emozioni che elabora sulla base di una precisa struttura genetica, apporto culturale, educativo. Solo nella personalizzazione di questi dati posso stabilire un rapporto di diversità con l’altro, con cui posso collaborare, stabilire momenti di armonia, insieme mettere punti in comune per la realizzazione di un progetto. Molto spesso i giovani – i fidanzati – non si conoscono. Dobbiamo cominciare a capire che dobbiamo avere dentro di noi una definizione: il corpo vissuto – “io sono il corpo” – rispetto al corpo esibito – “io ho il corpo”. Così stabilire con l’altro un dialogo, una comunicazione giusta, un’armonia esatta, dove ognuno – sempre nel rispetto delle dovute regole, principi – è in interazione reciproca, monitoraggio continuo.
Il corpo è sempre protagonista di tutto questo. Assume significato diverso con l’età: dall’“essere” corpo arriviamo all’età dell’anziano che “ha” il corpo, che non risponde più, che spegne gli ideali, la capacità di socializzare. Ecco l’importanza del senso della morale, soprattutto della spiritualità del corpo. Tra i sentimenti più significativi: il pudore e la vergogna, perché nella misura in cui sono esasperate entriamo nel disturbo di “anoressia” mentale. Il disturbo del nascondimento del corpo, del rifiuto del corpo, dell’esibire il corpo, del rivelarlo in quella realtà che si cerca di custodire in maniera soggettiva. Le cose che posso esprimere agli altri non posso esprimerle completamente ma devono avere quel senso di pudore, di limite, per conservare quella soggettività protettiva, senza evidenziarmi troppo perché quello che ho dentro di me mi permette di conservare la mia sicurezza (l’Afrodite del British Museum di Londra). La vergogna è invece un combattimento, un conflitto fra due sensazioni profonde: la modestia/umiltà nel sentirmi inferiore alle situazioni che sto vivendo, e per contro-altare il senso della rabbia/orgoglio del voler superare i momenti che non mi permettono di realizzarmi in una certa maniera. Il contrasto può portare nei casi-limite fino a una condizione di resa.
Per concludere una cosa un po’ “strappalacrime”: un mix tra l’aspetto religioso, l’aspetto sensoriale, emozionale, affettivo e il premio che ci viene concesso dalla sofferenza, dalla difficoltà. Due episodi da I promessi sposi di Manzoni. All’XI capitolo, la notte dell’Innominato: preso da uno stato di agitazione interiore alla vista di Lucia, situazione profonda di revisione del sé in cui lui si vedeva – funzionano i neuroni “specchio” – “come un cavallo che diventa restio per un’ombra”, e non osa andare oltre, non riesce a trattenere la parte di sé che prima ha sempre diretto e “cede” a Lui, all’Altra parte, e quindi la capacità di andare avanti: la conversione. All’VIII capitolo, la morte di Cecilia: la mamma sente il campanello dei monatti e scende e chiede il rispetto della morte. La sacralità, l’inizio di un’esperienza nuova nell’abito bianco, dimensione della gioia: “Dio non toglie mai la gioia ai suoi figli se non per dare a loro una più certa e più grande”.
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