Afferma Benedetto XVI: “Un popolo che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia, privo di valori chiaramente definiti e senza grandi scopi chiaramente enunciati” [1].
È questo il tema della tumultuosa trasformazione dell’odierna società occidentale, caratterizzata da un “conflitto” tra la tradizione e il presente che pone in crisi ogni verità, fino alla perdita per la persona di un “centro” cui riferirsi ed in definitiva ad un profondo disagio nel vivere i tempi nuovi.
Il tema è ripreso dal cardinale Camillo Ruini che ricorda come il Santo Padre Giovanni Paolo II abbia a suo tempo indicato la strada per rovesciare la convinzione dell’irreversibilità del processo di secolarizzazione in atto e la conseguente tendenza ad una sorta di rassegnata passività. Osserva Ruini:
“Giovanni Paolo II portava dentro di sé una visione diversa, radicata nella sua esperienza personale, storica ed ecclesiale, nel suo modo di vivere e di intendere la fede come nella sua riflessione antropologica e teologica.
Egli pensava cioè che la secolarizzazione non fosse il destino inevitabile della modernità. Riteneva, anzi, che il suo punto culminante fosse ormai alle nostre spalle e che il grande compito della Chiesa oggi fosse l’evangelizzazione intesa in senso forte e pieno, come capacità di portare Cristo al centro della vita e della cultura e quindi anche del divenire della storia.
Questa era, per lui, la missione della Chiesa: perciò la Chiesa doveva, senza timori e fino in fondo, prendersi cura dell’uomo, nel concreto della sua esistenza e delle sue situazioni.
A tal fine doveva certamente stare dentro ai tempi nuovi, senza sterili nostalgie per il passato e al contrario con una forte capacità di comunicare nei linguaggi del presente e di anticipare il futuro. Ma doveva anche mantenere tutto lo spessore e la densità umana e popolare della sua fede e della sua pastorale, non ripudiando ma conservando e rinnovando le proprie ricchezze tradizionali e anche devozionali” [2].
Dopo Corpo che sono e corpo che ho, la nuova strada per gli Inventori percorrerà dunque questo tema – Stare dentroai tempi nuovi – proponendo da un lato avvenimenti della recente storia europea nei quali già si è mostrata l’irrinunciabile esigenza per l’uomo – e per il cristiano in particolare – di stare dentro, al fine di salvare la propria identità per sé e per gli altri, e da un altro lato affrontando alcuni punti nodali di discussione con i relatori che man mano saranno invitati a portare il loro contributo.
Il primo appuntamento – su cui presto ritorneremo – sarà il prossimo 2 ottobre con Francesco Agnoli: “Fra scienza e fede c’è amicizia”.
[1] Incontro a Lisbona con il mondo della cultura, 12 maggio 2010.
[2]L’inatteso pontificato di Giovanni Paolo II, intervento all’incontro del Centro Universitario Cattolico in Roma, 18 maggio 2010.
L’ingresso di don Pietro Margini a Sant’Ilario d’Enza
Mercoledì 8 settembre 2010, in apertura della 38aFesta dei Giovani la parrocchia di Sant’Eulalia V. M. in Sant’Ilario d’Enza fa memoria di don Pietro Margini, parroco dal 1960 al 1990, in occasione del 50° anniversario del suo ingresso, avvenuto il 28 agosto 1960.
Questo il programma:
ore 19.00 – S. Messa presieduta da Padre José Noriega-Bastos, superiore dei Discípulos de los Corazones de Jesús y María – Madrid
ore 21.00 – Rappresentazione di “Luoghi, Tracce – Don Pietro Margini, parroco a Sant’Ilario 1960-1990”
La rappresentazione, partecipata e animata dagli stessi spettatori, si terrà a partire dal sagrato della chiesa parrocchiale e sarà replicata giovedì 9 settembre (con inizio però alle 20.30). L’ingresso è gratuito ma a motivo del limitato numero dei posti è necessaria l’iscrizione individuale. Ci si può rivolgere a:
Nel numero di maggio-giugno 2010 il periodico santilariese “Via Emilia” riporta a firma di Pietro Moggi una bella sintesi dei due incontri di Inventori di strade con Francesco Zappettini ed Emerico Labarile. Per leggere l’articolo clicca qui.
Ecco un altro degli interventi in Assemblea, pervenuto negli ultimi giorni.
La proposta culturale degli inventori di strade è molto interessante e valida, di buon livello che sarebbe bene conservare alto, oggi la tendenza ad abbassare le richieste culturali è troppo forte e ciò va a scapito della riflessione personale e della ginnastica mentale che tanto manca non solo alle nuove generazioni. Attenzione però al rischio opposto, cioè quello delle troppe proposte in tempo brevi, il buon cibo va gustato e assaporato con cura!
Propongo anche la possibilità di incontri con un gruppo (che fa capo a Lucio Guasti e al Pd), che ha affrontato il problema della politica oggi, intesa come “scuola di politica” non partitica anche se così potrebbe sembrare. Abbiamo già realizzato quattro incontri su vari temi che sono stati molto interessanti e utili. Potrebbe essere (in alcune occasioni), un momento comune di crescita per coloro che intendono mettere buona volontà e serietà, almeno a livello locale, nell’azione politica intesa come servizio alla comunità e buona pratica (RG).
Alcuni dei Soci protagonisti del dibattito nell’Assemblea straordinaria hanno inviato il testo del loro interventi, che qui pubblichiamo aprendo il confronto coi lettori.
Esprimo l’esigenza di creare dei gruppi di discussione fra di noi, perché il circolo non si riduca solo ad organizzatore di conferenze ma diventi anche esso stesso elaboratore di cultura. Per quanto riguarda la modalità di discussione nell’ambito del rapporto fra “visione di fede” e “visione moderna” dell’uomo e del mondo, sostengo l’esigenza di un approccio concreto (non troppo filosofico ma legato alle domande che la nostra esperienza di uomini moderni pone alla nostra fede e legato alle esigenze del dialogo con chi la pensa diversamente), che sia molto libero e aperto e che integri assieme diversi aspetti e punti di vista: teologico, scientifico, filosofico, storico, sociologico-culturale… Infatti il medesimo problema può richiedere competenze diverse. Poi mi sembra bello che la nostra attività di circolo culturale abbia delle ricadute pratiche nel paese in cui viviamo… Sto pensando a qualche proposta di carattere politico (non partitico); cioè vediamo una esigenza e proponiamo una iniziativa che possa andargli incontro (sempre per rimanere concreti). A questo riguardo sottolineo la modernità della nostra costituzione che per altro abbiamo nel nostro statuto e come sarebbe bello prenderla in mano. Mi pare un ottimo esempio di sintesi fra modernità e cultura cristiana (pur senza mai farci riferimento) (MZ).
Si vede che c’è stato tanto lavoro in questi mesi, lavoro fatto in modo serio. Io ho però un dubbio, che il Circolo sia nato vecchio. Naturalmente è NATO, e questo è prima di tutto un fatto importante. Però il bisogno attuale è quello di creare un circolo per noi dai 40 anni in su (tranne rare eccezioni, che rischi dopo qualche mese di diventare un bel luogo un po’ autoreferenziale) o piuttosto di fare qualcosa che introduca i GIOVANI alla cultura, una cultura non già altissima, fatta per chi ha già compiuto percorsi profondi e forti? Positivi i relatori selezionati finora, anche quelli prospettati per il prossimo futuro, ma i giovani che hanno bisogno sono quei pochi bravissimi che vengono, o anche tutti gli altri, che spesso trovano proposte di formazione piene di avvenimenti ai quali partecipare, anziché situazioni che li educhino ad ESSERE, per poi saper scegliere? Il mio forte dubbio è: questo tipo di percorsi, o sentieri che dir si voglia, è in grado di parlare loro, creando alla fine degli incontri un’occasione di dialogo che tolga loro la soggezione del momento, e consenta di partecipare in proprio ad un effettivo momento di scambio? Questo obbiettivo è realizzabile in un contesto come il Circolo, o effettivamente non ha la possibilità di rientrare negli scopi, almeno per ora? O forse, infine: ben venga l’attuale modo di procedere, ma non si perda la vitale necessità di creare una sezione finalizzata ai giovani. Ci vorrebbe il coraggio di correre il rischio di affidarla proprio a loro (MB).
Prima cosa: mi sembra che il Circolo abbia dimostrato di rispondere ad un bisogno reale del nostro ambiente. Seconda: condivido il parere di chi ha sottolineato l’esigenza di momenti di confronto e riesame tra i soci dopo gli incontri, per discutere e metabolizzare quanto ascoltato o vissuto. Terza: mi piace il tema individuato per il prossimo anno, ma ritengo necessari, prima degli incontri tematici, due approfondimenti: il primo dedicato ai processi in atto a scala globale, che vengono sintetizzati di solito col termine globalizzazione, che però è termine riempito di contenuti e significati troppo disomogenei per costituire una base chiara sulla quale innestare le analisi di singoli aspetti dei “nostri giorni”: il secondo dedicato alla situazione italiana. Se Dio vorrà, sono disponibile per almeno aiutare sull’impostazione dei due approfondimenti in questione (GB).
Probabilmente solo gli amanti del Basket sono venuti a conoscenza nei giorni scorsi della prematura scomparsa di Manute Bol, grande campione di pallacanestro. Ma forse anche a molti di questi sfugge che oltre il suo curriculum che parla di Washington, Golden State, Philadelphia, Miami, per un totale di 10 anni giocati nella NBA, e dietro la sua statura di 2,31 metri si celava un uomo innamorato di Dio e dei suoi fratelli sudanesi. Tutta la sua vita fu davvero spesa per il bene della sua terra i quasi sei milioni di dollari guadagnati in carriera sono finiti quasi tutti alla Ring True Foundation, nata per raccogliere fondi per i rifugiati sudanesi. Una volta venne multato di 25.000 dollari dalla sua squadra di allora, i Miami Heat, per aver perso due gare di preseason: il motivo era che si trovava a Washington per aiutare i dialoghi di pace tra i signori della guerra sudanese, che bombardavano i campi profughi a cui andava a far visita. Nel 2001 a Bol venne offerto un posto di ministro dello sport da parte del governo sudanese. Bol, che era cristiano, si rifiutò perché una delle pre-condizioni era la conversione all’Islam. Più tardi gli fu’ impedito di lasciare il paese dal governo sudanese, che lo ha accusava di sostenere la condotta cristiana dei ribelli Dinka. Il governo sudanese si rifiutatò di concedergli un visto di uscita, se non fosse tornato con più soldi. Fu aiutato a uscire da una raccolta fondi promossa dai suoi sponsor americani. Sei anni fa si era rotto il collo in un grave incidente d’auto. Negli Usa viveva modestamente, pagando i suoi conti tenendo discorsi o grazie agli aiuti dei suoi ex compagni di squadra, su tutti Chris Mullin. Finiti i soldi guadagnati col basket, Bol accettava qualsiasi trovata pubblicitaria pur di racimolare fondi da destinare al suo Sudan. Divenne il fantino più alto del mondo senza mai essere salito a cavallo e il più alto giocatore di hockey di sempre pur senza saper pattinare. Successe nel 2002, quando firmò un contratto di un solo giorno con gli Indianapolis Ice della Central Hockey League: la pubblicità generata dal suo ingaggio diede un’enorme boccata d’ossigeno ai conti della sua fondazione. Così come la sua apparizione sul ring nel Celebrity Boxing Show della Fox, trasmissione a cui aveva accettato di partecipare in modo che l’emittente mandasse in sovrimpressione il numero di telefono della sua fondazione. Stese in tre round l’ex giocatore di football William Perry. In Sudan ci era tornato anche in aprile, per tentare di combattere la corruzione e aiutare lo svolgimento di elezioni democratiche. “Il Sudan e il mondo hanno perso un vero uomo”. Sono rimasto affascinato e commosso da un uomo così straordinario (Gabriele Rossi).
Ieri sera, venerdì 4 giugno, nella gremita palestra dell’Oratorio San Giovanni Bosco in Sant’Ilario d’Enza (RE) ha avuto luogo la presentazione del “ritratto di don Pietro Margini”, una biografia redatta da Ludmiła Grygiel con il titolo Amor Tuus, amor fortis, Domine.
L’opera, per i tipi dell’editrice senese Cantagalli, è promossa dal Movimento Familiaris Consortio – che riconosce nel Sacerdote che è stato Parroco di Sant’Ilario dal 1960 al 1990 il suo Fondatore – e vede la luce in concomitanza con la celebrazione del 70° anniversario della sua ordinazione presbiterale.
Alla presenza del Vescovo ausiliare Mons. Lorenzo Ghizzoni, si sono succeduti a ricordare la figura di don Pietro alcuni relatori, mentre l’Autrice – studiosa di storia e saggista che ha al suo attivo diverse biografie di santi e personalità di rilievo del mondo cattolico – ha chiuso la serata con un intervento in cui ha sintetizzato le profonde impressioni personalmente riportate nel suo approccio a questo Sacerdote che ha senza dubbio segnato la storia di Sant’Ilario d’Enza e della diocesi di Reggio Emilia, apportando un ragguardevole prezioso contributo di cultura umana e cristiana.
«Il primo aspetto che mi ha colpito nella figura di don Pietro – ha detto tra l’altro la signora Grygiel – è il suo essere sacerdote (“sacerdote per sempre, sacerdote per tutti” – come ho scritto). Tutto quello che ha fatto e detto esprime la sua identità sacerdotale. Non considerava il suo sacerdozio un motivo di superiorità ma realizzava giorno per giorno la sua vocazione come un servizio totale per gli altri, per ogni persona che incontrava […] Considerava la propria identità sacerdotale con la stessa ammirazione, amore e timore con cui si tratta Dio – “timor Dei” -, così che chiamerei questo suo atteggiamento un “timor sacerdotii”. Per chiarire questo concetto, mi servo delle parole del sacerdote e poeta Jan Twardowski, che ha scritto: “ammiro il mio sacerdozio, ho timore del mio sacerdozio, davanti al mio sacerdozio mi inginocchio”. Un sacerdote che sta in ginocchio non copre Dio, ma è rivolto a Dio e lo indica agli altri. Forse in questo sta il segreto dello straordinario influsso di don Pietro sui fedeli: senza nulla imporre, entusiasmava con tutto il suo essere sacerdote e attirava a Dio».
Inventori di strade accoglie con gioia l’avvenimento, che viene ad aggiungersi alle altre iniziative già in atto con il comune obiettivo di tenere viva, in quanti appartengono al suo tempo ma anche nelle nuove generazioni, la memoria di don Pietro, “povero parroco di campagna” – come amava definirsi – ma in realtà grande padre spirituale, parroco e fondatore.
Presentiamo la sintesi dell’intervento che ha visto come protagonista sabato 8 maggio Emerico Labarile sulla strada “Corpo che sono e corpo che ho”, con il titolo “Il linguaggio del corpo come elaboratore di sensazioni ed emozioni”, prima delle tre parti che andranno a costituire il complessivo contributo del Relatore a Inventori di strade (i due successivi appuntamenti alla ripresa autunnale).
* * *
L’essenza totale dell’uomo è racchiusa nel contesto “uomo”: mente e corpo. “Io sono il corpo”.
Nelle parole di Gn 2,25 vediamo che l’anima – alito divino – dà alla materia del corpo l’essenza di ciò che poi noi siamo come bisogni fisiologici, come risposta sensoriale, emozionale, affettiva, come espressione di un’etica, di una morale, d’una spiritualità.
Il corpo – corpo-mente, nostra carta di identità – è un elaboratore di informazioni e attraverso i suoi “sensori” visivi, uditivi, tattili, gustativi, olfattivi, il mondo entra in noi. Il nostro cervello è un sistema dinamico che mette in moto un meccanismo di valutazione di queste informazioni, fornendo al corpo la possibilità di reagire con le sue caratteristiche fisiologiche, così che si determina una sensazione. Poi questa sensazione sale verso la parte superiore del cervello e assume particolari colori per diventare emozione, fino a che tutto questo si fa consapevole in termini di valore e di significato per poi sviluppare l’espressione del comportamento, cioè l’azione.
Il nostro cervello è diviso in due emisferi che interagiscono per la realizzazione di un progetto unico. Il destro è la parte “in ombra”, il sinistro è la parte “in luce”: parte inconscia, emotiva-affettiva, e parte razionale. Nella parte destra ho percezioni indistinte, mentre girando verso la parte sinistra comincio a distinguere i singoli elementi che dall’oscurità affiorano alla luce.
Il rapporto tra il bimbo e la madre durante la gravidanza: man mano la madre prende contatto e confidenza con il futuro neonato. Questa relazione prima della nascita è presupposto di quella che comincerà dopo, quindi è molto importante, importantissima, mentre oggi la relazione madre-bambino è molto confusa per una insufficiente capacità di ascolto, per una involontaria distrazione sul piano della comunicazione. Nella misura in cui il neonato stabilisce una relazione con chi si prende cura di lui e quindi un rapporto materiale dal punto di vista del supporto biologico, comincia ad avere vita autonoma ma avverte anche di dipendere da un altro, e ciò costituisce la prima angoscia esistenziale dell’uomo. Con la madre il bambino comincia a stabilire quello che è “rapporto di amorosi sensi”: sensorialità, meccanismo gestuale, risposta mimica, emozionale comportamentale, espressiva, in aspettative reciproche. Dopo i primi sei mesi il bimbo comincia a rendersi conto che la madre può dargli delle difficoltà sul piano relazionale e a vivere allora un senso di frustrazione, per cui mentre prima si isolava organizzando “automaticamente” i propri livelli difensivi, ora assume una “chiusura” nei confronti di questa realtà.
Il rapporto della madre con il bambino è gestuale, il primo “linguaggio” è gestuale. Pian piano questo si lega a quella che sarà la parola, che va a valorizzare il gesto, dandogli senso e significato, per cui il gesto e la parola diventano un tutt’uno. Mentre nel rapporto verbale noi possiamo camuffare, modificare e filtrare concetti, il gesto sfugge alle regole del controllo, poiché è un fatto istintivo che contempla risposte sensoriali, emozionali, profonde, acquisite e quindi non soggette a censura. Nella misura in cui parliamo siamo attenti a pensare quello che stiamo per dire e per fare. Nel gesto lo facciamo, magari un gesto inconsulto, però è fatto.
Alla base del linguaggio non verbale e poi verbale ci sono quei neuroni “specchio” del nostro sistema nervoso che hanno la capacità di recepire, di fotografare tutto ciò che noi vediamo, osserviamo, sentiamo, collocandoli nella struttura mnemonica in cui hanno sede. Quando viviamo all’esterno quella realtà da noi recepita, la riconosciamo. Se io faccio l’elemosina a un medicante, è come se la facessi a me stesso, perché ho già recepito il senso dei valori che mi ispirano ad agire e io “mi specchio” nell’altro, in tutti i sensi: gestuale, emozionale, espressivo, comportamentale. I neuroni “specchio” sono alla base della capacità di valorizzare l’incontro con l’altro, dandogli un senso di “familiarità”. Questa capacità si ha solo se c’è un corpo che determina dentro di sé una risposta fisiologica allo stimolo, la realizza all’interno sotto forma di sensazione, la colora di una particolare emozione, ne prende coscienza dandole valore: nel riconoscimento le basi per avvertire e conoscere quanto sta succedendo nel rapporto relazionale.
Alcuni esempi tratti dall’antica letteratura greca. L’incontro nell’Ade di Odisseo con la madre (XI libro dell’Odissea), esempio di rapporto, di incontro senza il corpo, che porta a un senso di delusione. Le sensazioni ed emozioni che possiamo cogliere nell’incontro ci danno questo senso di disillusione e di illusione nello stesso tempo, così che dentro di noi si crea uno stato emozionale che ognuno di noi vive in maniera specifica, poiché ognuno di noi è un’entità esclusiva irripetibile, ognuno con un proprio software, cioè con un programma cerebrale, con una capacità di elaborare i dati, che gli consente di affacciarsi alla realtà dell’altro e contemplarlo in autonomia e indipendenza.
Il concetto di familiarità consiste nel fatto che nella relazione di tipo sensoriale, emozionale, di conoscenza c’è un feeling, un qualcosa in più che lega, che rende l’altro familiare, come se ci fosse qualcosa di mio che l’altro può condividere con me. Nell’Elettra di Sofocle, Oreste va a ritrovare la sorella che non rivedeva da anni e la riconosce subito mentre lei fatica ma a un certo punto attraverso i discorsi, spunti di vita comuni riesce a vedere in questo altro il fratello: la relazione qui è incontro attraverso una sofferenza condivisa.
Nell’Oreste di Euripide, il matricida arriva ad Argo dove a un certo punto lo attende un verdetto di morte. Oreste cade in uno stato di smarrimento, di ansia, di paura, un’angoscia esistenziale, particolare. Passata questa fase ritorna in sé ed è “come puledro cui viene tolto il giogo”: troviamo il corpo, le sensazioni, le emozioni, gli stati d’animo, il senso del valore e quindi di un’etica ma anche di una religione.
Infine Guerra e pace di Tolstoj, quando Pierre finita la guerra torna a casa e riconosce la sua Natascia attraverso episodi, momenti in cui la ragazza dice qualcosa. Pierre comincia ad avvertire come una vertigine interiore, un ripristino di una valutazione nella memoria di qualcosa che emerge, come se ci fosse una trasfigurazione, una riedizione del volto di Natascia: questa è familiarità.
La gioia: la esprimo in maniera diversa. La risposta interiore alla stessa gioia come elemento di significato assume forme comportamentali diverse, con diverso investimento affettivo, il rapporto relazionale affettivo è diversificato in rapporto all’oggetto di investimento: la qualità di un sentire, la diversità con cui colgo il senso del valore da cui io posso decidere il mio comportamento.
Nella relazione è fondamentale il rapporto in cui ognuno possa avere la possibilità di sentire, ascoltare dentro di sé la risonanza di stimoli, sensazioni, emozioni che elabora sulla base di una precisa struttura genetica, apporto culturale, educativo. Solo nella personalizzazione di questi dati posso stabilire un rapporto di diversità con l’altro, con cui posso collaborare, stabilire momenti di armonia, insieme mettere punti in comune per la realizzazione di un progetto. Molto spesso i giovani – i fidanzati – non si conoscono. Dobbiamo cominciare a capire che dobbiamo avere dentro di noi una definizione: il corpo vissuto – “io sono il corpo” – rispetto al corpo esibito – “io ho il corpo”. Così stabilire con l’altro un dialogo, una comunicazione giusta, un’armonia esatta, dove ognuno – sempre nel rispetto delle dovute regole, principi – è in interazione reciproca, monitoraggio continuo.
Il corpo è sempre protagonista di tutto questo. Assume significato diverso con l’età: dall’“essere” corpo arriviamo all’età dell’anziano che “ha” il corpo, che non risponde più, che spegne gli ideali, la capacità di socializzare. Ecco l’importanza del senso della morale, soprattutto della spiritualità del corpo. Tra i sentimenti più significativi: il pudore e la vergogna, perché nella misura in cui sono esasperate entriamo nel disturbo di “anoressia” mentale. Il disturbo del nascondimento del corpo, del rifiuto del corpo, dell’esibire il corpo, del rivelarlo in quella realtà che si cerca di custodire in maniera soggettiva. Le cose che posso esprimere agli altri non posso esprimerle completamente ma devono avere quel senso di pudore, di limite, per conservare quella soggettività protettiva, senza evidenziarmi troppo perché quello che ho dentro di me mi permette di conservare la mia sicurezza (l’Afrodite del British Museum di Londra). La vergogna è invece un combattimento, un conflitto fra due sensazioni profonde: la modestia/umiltà nel sentirmi inferiore alle situazioni che sto vivendo, e per contro-altare il senso della rabbia/orgoglio del voler superare i momenti che non mi permettono di realizzarmi in una certa maniera. Il contrasto può portare nei casi-limite fino a una condizione di resa.
Per concludere una cosa un po’ “strappalacrime”: un mix tra l’aspetto religioso, l’aspetto sensoriale, emozionale, affettivo e il premio che ci viene concesso dalla sofferenza, dalla difficoltà. Due episodi da I promessi sposi di Manzoni. All’XI capitolo, la notte dell’Innominato: preso da uno stato di agitazione interiore alla vista di Lucia, situazione profonda di revisione del sé in cui lui si vedeva – funzionano i neuroni “specchio” – “come un cavallo che diventa restio per un’ombra”, e non osa andare oltre, non riesce a trattenere la parte di sé che prima ha sempre diretto e “cede” a Lui, all’Altra parte, e quindi la capacità di andare avanti: la conversione. All’VIII capitolo, la morte di Cecilia: la mamma sente il campanello dei monatti e scende e chiede il rispetto della morte. La sacralità, l’inizio di un’esperienza nuova nell’abito bianco, dimensione della gioia: “Dio non toglie mai la gioia ai suoi figli se non per dare a loro una più certa e più grande”.
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